Articoli di Giovanni Papini

1955


in "Schegge":
La morte dell'agave
Pubblicato in: Il nuovo Corriere della Sera, anno LXXX, fasc. 8, p. 3
Data: 9 gennaio 1955


pag. 3




   Mi dicono che questa pianta fiorisce solamente una volta ogni cent'anni e questa che ho dinanzi sembra cha abbia aspettato me per fiorire, perchè finisce ora per lei il secolo. Si alza sopra un ciglione macchioso, quasi a picco sul mare, e un po' pendente come se volesse aspirare meglio l'aria salsa. Questa primavera era soltanto una specie di canna bassa e anonima in mezzo all'erbame. In giugno ha cominciato a crescere, a cercare spazio e cielo e ora ha l'altezza di un giovane frassino. Sono spuntati via via sul fusto, con quella armonia che Leonardo fu il primo a scoprire, tanti bracci protesi che portano in cima delle turgide efflorescenze di bocci simili a diti carnosi di fanciulla verde, che il sole matura facendoli scoppiare dal braccio più basso all'ultimo cespo che corona il gran fiore.
   La fresca brezza mattutina e il caldo del pieno meriggio rompono quei bocci tramutando quei bracci quasi in candelabri luminosi per effetto del vivo giallo pulviscolare che li colora. Se nulla venisse a turbare questo trionfo solitario, si potrebbe vedere sul cielo l'alto candelabro con le sue trentasei fiaccole d'oro pallido ma pur fulgente, e sarebbe spettacolo degno di coronare un secolo di immobile umiltà. Dopo questa glorificazione solare l'agave è destinata a morire. E le sue figlie dovranno attendere un altro secolo per fiorire in altezza. Ma l'infelice pianta che è dinanzi a me non ha potuto godere di questo ricco fulgore prima della fine. Non appena sono cominciati a sbocciare i diti verdi e i bracci più bassi, un nuvolo di api piccole, ma ingorde e infaticabili, s'è avventato verso i petali gialli e sottili che tentavano di espandersi a corona.
   Le api hanno tutto succhiato, tutto consumato lasciando, dopo il pasto, soltanto dei pistilli disseccati che cadono in terra al primo soffio del maestrale. E via via che i doppieri salienti marcavano di accendersi, le api salivano, ghiotte e pertinaci, per distruggere anche le tenere e timide fiorescenze che venivano divorate prima ancora che il sole facesse in tempo a indorarle. E questo in un ritmo veloce, come il volo delle api medesime, per lo spazio di un mese, quasi una torcia che accesa dal basso si consumi avvolta dalle scintille dell'intenso incendio.
   E così le dolci api, care al mite Virgilio. stanno compiendo un'opera di inconsapevole ferocia. Non hanno permesso all'agave, che per un secolo fu come morta e domani è destinata a morire, la sublimazione ardente della sua ultima fioritura. E penso alla tragedia di un pittore che fosse giunto in vecchiaia alla vigilia di creare il suo capolavoro e al quale, in forza di una misteriosa condanna, siano strappati gli occhi e mozzate le mani.


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